giovedì 15 ottobre 2015

Un post dall'Health Post

Ciao gente, sono Catia e sono qui a Lilliput con Human Traction da 3 settimane. Vivere in un villaggio della Kathmandu Valley è una passeggiata di salute se hai la benzina, se hai la bombola del gas per cucinare, se hai corrente 24h e acqua potabile tutto il giorno. Ma così non è, quindi la passeggiata di salute ancora non l’ho fatta. E proprio di salute voglio parlarvi, perché finché stai bene qui con impegno e spirito d’ adattamento alla fine ce la si fa. Ma se per caso ti capita di prenderti una qualunque malattia tutto diventa davvero rischioso. Come sapete nelle scorse settimane nonostante la chiusura della frontiere con l’India e tutti i problemi che ne sono derivati, siamo riusciti a portare uno dei nostri ragazzi, D., presso un ospedale privato dove gli è stata diagnosticata la tubercolosi diffusa. Ovviamente prima D. era stato “visitato” dal cosiddetto medico dell’Health Post del villaggio. Diagnosi approssimate che si sono rivelate errate, e poi la decisione di rivolgerci all’ospedale privato ci hanno permesso di curare il nostro D. Allora mi sono detta “sarà il caso di dare un’occhiata a questo avamposto della sanità pubblica!”. Così stamattina con curiosità e non poco timore mi sono avventurata. Le immagini parlano da se, due stanzette fatiscenti, zero attrezzature mediche, un unico lettino per i pazienti usato come portaoggetti, materiale arrugginito e scatole intere di farmaci scaduti pronti da somministrare agli sfortunati avventori. I pochi cartelli che vedo sono ovviamente incomprensibili per me, ma ho avuto conferma dai locali che non contengono informazioni davvero rilevanti sulla prevenzione e sulla salute. Col sorriso più amichevole che posso cerco di parlare con quello che sembra essere il medico. Un uomo sulla quarantina, niente camice, una sorta di stetoscopio al collo, roba da mangiare sulla scrivania. Mi dice che è qui da 15 anni, che praticamente ha curato tutti e conosce tutti qui al villaggio. Non sono un medico, tengo a precisare, ma lo vedo prescrivere farmaci ad un bambino di circa un anno senza neanche averlo visitato. La domanda fatidica:” dottore ho sentito dire che qui in Nepal la tubercolosi è molto diffusa, me lo conferma?”. Frettolosamente mi risponde di NO e ricomincia a parlare con la mamma del piccolo paziente. Non so se ho sbagliato, avrei potuto ribattere ma non l’ho fatto, sono uscita dalla sua stanza anche perché l’ho visto nervoso mentre mi vedeva maneggiare il telefono per cercare di far foto. Nell’altra stanza un altro uomo, credo sessantenne, prescrive farmaci dalla finestra, la gente si affaccia dall’esterno dell’edificio, dice qualcosa e lui compila dei foglietti di prescrizione medica come se fosse un impiegato delle poste.




Ribadisco, non sono un medico e non mi permetterei mai di giudicare l’operato di professionisti in una materia che non padroneggio, ma con un po’ di ragionevolezza credo non sia buona norma prescrivere farmaci senza visitare i pazienti, credo che un Health Post, per quanto sguarnito di materiale medico, si possa tenere in condizioni igieniche migliori e che la salute dei cittadini non debba cadere nella immensa falla del sistema sanità. Dal 1996 esistono i DOTS, centri di osservazione diretta per la tubercolosi, e la loro attività ha già prodotto buoni risultati. Ma la loro efficienza rimane limitata se poi i medici dei villaggi non sono abbastanza professionali e preparati da inviarvi i casi sospetti. Vedo D. con la mascherina, una terapia di 8 mesi davanti, più di 6 farmaci al giorno. In Nepal oggi la sanità è privata. Dati alla mano circa il 40 % della popolazione è infetta dal bacillo della tubercolosi. Circa 4000 persone all’anno muoiono di tubercolosi. Nella stragrande maggioranza dei casi la diffusione della malattia è dovuta al ritardo nella diagnosi e alla mancanza di consapevolezza della popolazione sulla malattia stessa.


Incredibile ma vero! Questo è quanto ho appreso oggi nella mia passeggiata di salute a Lilliput.












domenica 11 ottobre 2015

Aspettando Godot...ed un autospurgo!

Amici che ci seguite, vi abbiamo lasciato con l’ultimo post di fine settembre con le nostre disavventure, la fossa biologica, le tensioni politiche interne e quelle con l’India che hanno portato al blocco delle frontiere con conseguente razionamento di benzina e bombole del gas. Le cose non sono migliorate, anzi.
Il 2 ottobre abbiamo portato D., uno dei nostri ragazzi, in ospedale. Eravamo già stati 15 giorni prima in un ospedale nepalese dai sedicenti “international standards”. Il ragazzo accusava dolori di stomaco, febbre, inappetenza e presentava l’addome rigonfio. L’arguto medico, senza neanche toccare il paziente, ci prescrive: ciproxina (antibiotico ad ampio spettro), un camion di paracetamolo ed un farmaco antiulcera. A distanza di pochi giorni anche presso l’health post del villaggio D. ha ricevuto lo stesso trattamento. Abbiamo deciso a questo punto di rivolgerci all’unico ospedale degno di questo nome. Una precisazione: in Nepal la sanità è privata eccetto il Bir Hospital di Kathmandu e, come per tutto il resto, il servizio è scadente. I medici sono poco preparati e le diagnosi sono spesso inadeguate. Dopo 4 giorni di ricovero e più di 500 euro di spesa, abbiamo scoperto che D. ha la “tubercolosi diffusa” che ha colpito, nel suo caso, la pleura e il fluido peritoneale. Si tratta di una malattia molto diffusa in questo Paese ma nonostante ciò le prime diagnosi sono state pericolosamente errate. La malattia è infettiva ma il medico ci ha un po’ rassicurati spiegandoci che è molto meno trasmissibile rispetto a quella polmonare. Le indicazioni per D. sono: indossare la mascherina almeno per i primi tempi, dormire isolato, seguire la terapia farmacologica per 6/8 mesi.
La mattina del 6, ovviamente ancora debole e barcollante, D. è stato dimesso. I nostri problemi personali, come quelli di tutti i nepalesi, sbattono e si amplificano contro il muro di problemi e disagi dovuti alla mancanza di carburante. I bus hanno ridotto le corse e viaggiano carichi al limite della sopportazione meccanica ed umana, D. non è in condizione di affrontare un viaggio simile. Ai benzinai ci sono taxi ed autisti del trasporto pubblico in file di km. C’è chi aspetta da più di 24 ore ed il rifornimento ai privati non è permesso da diversi giorni. Davanti all’Esercito ci siamo finti turisti impauriti e siamo riusciti a recuperare 2 preziosissimi litri per riportare il nostro D. a casa. Oggi, domenica 11, siamo un po’ più sereni perché risponde bene alla terapia, gli sta tornando l’appetito e, anche se il suo sorriso sarà coperto dalla mascherina per un bel po’, i suoi occhi e la sua vitalità, che aumenta di giorno in giorno, ci fanno sperare che con le dovute attenzioni ed impegno guarirà e anche la Tbc, al tempo dell’embargo silente, sarà un’altra complicata avventura archiviata.
Qui non ci si annoia mai e di complicate avventure ne abbiamo un po’. Il fatto che non ci sia benzina non significa solo che devi andare a piedi e che se devi trasportare materiali e/o persone ti puoi giusto affidare agli dei, significa che tutta la vita e tutte le attività vanno in stop indeterminato, il che alla lunga diventa stressante e pericoloso. Non c’è cemento né sabbia né i materiali necessari per la ricostruzione della cucina e delle parti pericolanti. Non possiamo terminare il lavoro dei bagni e chi ci segue sa che da tempo abbiamo problemi con la fossa biologica. Prima lo sciopero degli autospurgo e poi la mancanza di benzina stavano rendendo la vita in ostello irrespirabile e pericolosa. Non abbiamo avuto altra scelta che utilizzare una grande buca nel campo sottostante che, anche ad aprile, causa terremoto, era stata usata per svuotare la fossa stessa. La buca è coperta da strati di onduline e le terra assorbe abbastanza in fretta. Sappiamo che non è la soluzione ideale e non è stata una decisione presa a cuor leggero, anche perché il canale di scolo lo abbiamo scavato noi e non è stato piacevole. Adesso la situazione è sotto controllo, per un po’, l’odore nauseabondo è diminuito e la pozzetta a cielo aperto di liquami e bigattini è sparita.

Come il resto della popolazione non ci resta che attendere che la situazione si sblocchi per poter tornare a quel casino incredibile di luce ed acqua razionate, politica fantoccia, spezie e bellezza, anime gentili e balordi, macerie e speranza che chiamavamo “normalità”.
Per chi sa l’inglese e vuole capire di più, ecco un bell’ aricolo uscito oggi su Aljazeera-http://www.aljazeera.com/news/2015/10/analysis-blockade-politics-nepal-151009193817262.html